Comunicazione tra manager e team «carta vincente» in azienda

La comunicazione gioca un ruolo fondamentale nella vita lavorativa di tutti, soprattutto per chi si trova a dover gestire e guidare un team di professionisti che hanno, naturalmente, caratteri e personalità molto diversi. Nonostante gli sforzi – e nonostante spesso siamo portati a pensare di essere capaci di comunicare efficacemente – può capitare che la nostra squadra non abbia ben chiari gli obiettivi, le priorità e i metodi di lavoro. E questa situazione può portare alla nascita di problemi e all’aumento di insoddisfazione che, chiaramente, si trasforma in un calo delle performance. Ogni manager, quindi, deve essere in grado di interpretare alcuni segnali che, se trascurati, possono appesantire il clima in ufficio e generare situazioni spiacevoli.

Il primo segnale è legato ai cambiamenti comunicati male (o non comunicati). L’assenza di comunicazione, in un caso come questo, porta ad un unico risultato: la confusione totale. Mi è capitato recentemente di affiancare un’azienda in un processo di fusione con un’altra: due team nel marketing, due team nelle vendite e due team nella parte amministrativa dovevano necessariamente iniziare ad integrarsi e diventare uno solo. Nessuno, però, aveva detto nulla. Cosa è successo? Semplice: lavori doppi, spreco di energie e di tempo incredibili perché tutti, non essendo informati della novità, sono andati avanti a fare ciò che avevano sempre fatto. Sarebbe bastata una semplice comunicazione e tutto questo sarebbe stato evitato.

Una comunicazione chiara, poi, è fondamentale anche nella fase di assegnazione di un nuovo progetto ad un membro del proprio team. Sia che questa informazione passi via mail o a voce, è indispensabile che il manager spieghi esattamente ciò che si aspetta, in quali tempi e in che modo. In caso contrario il risultato sarà sempre lo stesso: caos, scadenze non rispettate, obiettivi non raggiunti.

Strettamente legato a questo tema, poi, c’è la comunicazione delle priorità. Capita quasi quotidianamente, infatti, che si lavori su più fronti contemporaneamente. E capita altrettanto frequentemente che delle mille attività in progress, meno del 10% di esse sia davvero prioritario ed urgente. Il manager che non sia in grado di darsi e comunicare le priorità non è – inutile girarci intorno – un buon manager: comunicare in modo efficace con la propria squadra significa anche condividere gli obiettivi e le priorità, in modo tale che tutti siano sempre allineati e nessuno possa mai dire «non credevo fosse importante, stavo lavorando sull’altro progetto».

La prossima volta che ci troveremo in una situazione di questo tipo, prima di incolpare i membri del nostro team proviamo a fare una riflessione e capire se davvero la nostra comunicazione è stata efficace, con tutti e a tutti i livelli. Una volta creato un flusso efficace, probabilmente, gran parte dei nostri problemi saranno risolti.

* L’articolo originale è stato pubblicato da www.ilsole24ore.com qui

Sai rispondere alla domanda “come affronti le situazioni stressanti”?

Sostenere un colloquio non è affatto facile, è una situazione stressante e complicata. Ed è per questo che è fondamentale arrivare preparati, anche sulle domande apparentemente più innocue e di poco conto.

Qualsiasi colloquio di lavoro prevede una serie di domande standard, magari declinate in modi differenti, che però non devono essere assolutamente sottovalutate. Rappresentano, in altre parole, l’occasione per dare risposte diverse, che possano farci emergere e distinguere dagli altri candidati. Una delle classiche domande di questo tipo è legata alla capacità di gestione di situazioni stressanti: rispondere, ad esempio, che non ci facciamo mai sopraffare dallo stress può non essere la soluzione migliore.

Ecco tre risposte corrette – ma che potrebbero essere interpretate in maniera negativa – e tre consigli per rispondere al meglio alla domanda “Come affronti le situazioni stressanti?”.

Non mi abbatto e lavoro duramente. Una risposta di questo genere, se mal interpretata, potrebbe non dipingere il candidato come un lavoratore modello, anzi. Per prima cosa mette in luce un aspetto che in fase di valutazione può essere considerato negativo: la scarsa attitudine a lavorare in team e a condividere problemi o preoccupazioni con i propri colleghi e il proprio capo e che, ovviamente, può portare a commettere errori.

È molto meglio, invece, sottolineare quanto siamo in grado di rimanere motivati anche durante le situazioni stressanti e/o difficili, senza perdere di vista gli obiettivi ed, eventualmente, coinvolgere i colleghi o il proprio capo.

Non vado mai sotto pressione. Questa risposta può non significare, a differenza di quanto si possa pensare, che si ha il pieno controllo delle situazioni. Un selezionatore di fronte a questa risposta sente un campanello d’allarme: il candidato ha poca consapevolezza di sé e dei suoi limiti. E nessuno vorrebbe assumere una persona che non sia in grado di capire fino a che punto è in grado di arrivare o, peggio, che non riesca a rendersi conto di situazioni problematiche.

Molto più saggio rispondere che, prima di prendere qualsiasi decisione o iniziare qualunque attività, ci si assicuri di aver riacquistato la calma e la serenità mentale.

Tendo a delegare. Un buon manager deve saper delegare. Ma può capitare che il selezionatore pensi di non avere di fronte il candidato ideale. Nessuno vorrebbe lavorare per un manager che non è in grado di affrontare i problemi e non sa gestire il proprio carico di lavoro e che, ancora peggio, deleghi i compiti che spettano a lui ai propri sottoposti”.

Affermare, al contrario, che la capacità di gestire lo stress di un manager si rifletta – inevitabilmente – su tutto il team mette sotto una luce diversa il candidato. Anche comunicare apertamente che si sta vivendo una situazione stressante e/o chiedere un aiuto per risolvere il problema non viene considerata una risposta negativa.

 

Ho deciso di rimettermi in gioco

Qualche mese fa ho fatto un colloquio con un cacciatore di teste, uno di quelli altisonanti e famosi. Dopo una lunga chiacchierata, mi ha detto con molta franchezza “Francesca, hai 45 anni, sei donna e provieni da un settore ancora poco capito (ndr quello delle Agenzie per il Lavoro). Le possibilità di trovare un’opportunità di lavoro sono bassissime. Ma mi raccomando, prenditi il tempo necessario per ragionare sul tuo futuro lavorativo”.

Si era appena concluso un rapporto di quasi 17 anni con la mia vecchia società e questo è stato uno dei primi riscontri. Poco entusiasmante, potrei dire, usando un eufemismo. E mi sono sentita come tanti amici e candidati che si sono trovati, negli anni, nella stessa situazione. E ora cosa faccio?

Ho seguito il consiglio del cacciatore di teste che avevo incontrato. Mi sono concessa del tempo. Avevo bisogno di svuotare il cervello da abitudini consolidate che ormai erano diventate la mia vita: la routine dell’arrivo in ufficio, le persone fantastiche con le quali ho lavorato, la battuta con il collega alla mano, il caffè delle prime ore, le riunioni programmate da mesi e ripetitive, l’aperitivo del venerdì. Una serie di quotidianità che negli anni ci costruiamo e che scandisce le nostre giornate. Bene, tutte queste abitudini non c’erano più e bisognava crearsene delle altre. E – aspetto ancora più importante – dovevo costruirmele, tassello per tassello, da sola.

Io sono stata sempre abituata ad avere rumore intorno, nell’ultimo anno stavo addirittura in open space con più di 70 persone. E da un giorno all’altro mi sono trovata a sentire solo il russare del mio labrador, sdraiato sotto la scrivania dello studio.

Non sono una casalinga, non lo sono mai stata e mi sono resa conto di non avere le abitudini delle mamme dei compagni di classe di mio figlio che fanno le casalinghe. Solo relazioni cordiali, ma superficiali con loro. Da questo lato, quindi, nessun aggancio.

Non sono una fashion victim. Tradotto in parole povere: faccio shopping ogni tanto, ma poi mi stufo. Va bene la prima, va bene la seconda, ma poi??

Non sono una che sta ferma a casa a non far nulla. Non riesco a stare a rimuginare, a leggere un libro, a cucinare. So che non sono esattamente “non fare nulla”, ma non appartengono alla mia quotidianità.

Quindi??? Alla lunga il tarlo, quell’essere strano che per anni mi ha spinto a lavorare come una forsennata, si ripresenta simpaticamente. E sempre con lo stesso interrogativo. “Mica vorrai star ferma lì senza fare nulla, vero? Ma nulla, proprio nulla? Lavorativamente parlando, si intende…

Nel frattempo, hanno iniziato ad arrivare alcune offerte di lavoro, alcune – devo ammetterlo – anche molto interessanti. Ma non coincidevano con quello che avrei voluto fare nel mio futuro e soprattutto non mi avrebbero permesso di essere la mia nuova versione. Quella che ha capito che a 45 anni è arrivato il momento di scegliere bene con chi passare la maggior parte delle ore o con quale capo avere a che fare. Senza avere sensi di colpa.