Mail-etiquette: quanto è importante?

Quante volte vi è capitato di ricevere una mail e, giusto tre secondi dopo averla letta, le vostre sensazioni sono state nell’ordine: «Adesso esco e lo prendo a schiaffi!». «Cosa gli ho fatto di male?». «Che problema ha questo con il mondo?». Purtroppo, è sempre più frequente ricevere mail assolutamente discutibili, per contenuto e forma. Spesso si dimentica che – sebbene siano diventate uno strumento di comunicazione veloce e pop – sono nate per sostituire le lettere. Ma soprattutto ci si dimentica che la velocità di scambio non significa assenza di regole.

La prima, molto semplice: iniziare con «Buongiorno/Buonasera». A maggior ragione se con il destinatario non si ha un rapporto di amicizia o di conoscenza approfondita. Quando entrate in un negozio, in un bar o in un ufficio non salutate? Ecco, è esattamente la stessa cosa. I tempi e i modi verbali, poi, meritano un capitolo a parte. La lingua italiana è bellissima perché piena di sfumature. Ma molti se ne dimenticano e, come accade in un dialogo a voce, optano per forme quasi imperative: fai, dici, scrivi, metti. Con un impatto, per chi legge, durissimo.

E in questo discorso si inserisce anche il tema della scelta dei toni. Una scelta a cui tutti dobbiamo porre la massima attenzione, per le comunicazioni verso l’interno e verso l’esterno. Sbagliare il tono significa mandare un messaggio errato; mandare un messaggio errato può creare grossi problemi e può far perdere credibilità. Ci avete mai pensato? Grazie e per piacere sono termini aboliti dai nostri vocabolari? No, giusto? Siamo tutti d’accordo? Benissimo! Usiamoli, a voce e anche nelle mail. Ormai tutto viene dato per scontato: il fornitore, poiché viene pagato, deve lavorare come un mulo; il dipendente, anche lui pagato, deve essere sempre disponibile. Aggiungere un “grazie” o un «per favore» può davvero fare la differenza e cambiare radicalmente il modo in cui una richiesta, magari particolare o complicata, viene accolta.

La lunghezza dei testi, infine, è un aspetto da non sottovalutare. Mail da 50mila battute, senza capo nè coda. Quelle che ti costringono a rileggere almeno tre volte per capire il senso. Una telefonata, in questi casi, no? No, ovviamente. Perché verba volant e scripta manent. E allora, se la parola scritta ha un peso così significativo perché non porre attenzione a quello che si scrive e a come si scrive?

Vi faccio due esempi. Il primo: il capo che ha poco tempo e deve chiedere al collaboratore di svolgere un determinato compito. Manda una mail con una sola parola: il nome del documento tipo «albachiara.doc». E il collaboratore cosa può pensare? Vorrà il testo della canzone di Vasco, probabilmente… Il secondo, il capo entra, dice «entro tre ore mi serve questo» e se ne va. Mi è capitato che un mio ex capo mi chiedesse, naturalmente in una mail di neanche due righe, di preparare il budget con una proiezione dei cinque anni successivi. Avevo tre ore di tempo. Non avevo, però, indicazioni aggiuntive. Nessuna spiegazione. Nessun perché. Risultato? Ho fatto il piano, nel modo migliore possibile. Peccato fosse inutile e non concertato.

Io credo, al di là delle singole situazioni che possono magari anche strappare un sorriso, che stiamo facendo un po’ di confusione sull’uso dei vari mezzi – che oggi sono davvero tanti – di comunicazione. Ci sono gli strumenti meno formali (pensiamo a WhatsApp o a Messanger, ad esempio) che, grazie agli emoji, permettono di mandare messaggi che difficilmente possono essere interpretati in modo sbagliato. Se in una conversazione informale scriviamo “NO” e aggiungiamo il pollice verso, non succede nulla di grave. Ma se a farlo è, invece, un capo, un cliente o un collega, attraverso una mail, forse il risultato non è proprio lo stesso.

* L’articolo originale è stato pubblicato da www.ilsole24ore.com qui

Il mondo finisce due volte l’anno: l’ansia pre-ferie negli uffici

Di fine del mondo si parla molto spesso e sotto diversi punti di vista: religioso, politico, socio-economico, ambientale. E dal punto di vista lavorativo? Direi quasi mai, eppure ci sono due periodi in cui, pare, ci sia la fine del mondo anche negli uffici: prima di ferragosto e prima di natale.

Lo stiamo vivendo, credo, proprio in questi giorni. Indipendentemente dal ruolo che si ricopre in azienda, c’è una specie di ansia collettiva e diventa indispensabile correre per arrivare alla fine. Ma alla fine di cosa? Quei 15 giorni di ferie non sono, posso giurarlo, un enorme buco nero oltre il quale non c’è nulla. 
 
Sembra, però, che nessuno ci creda. Ecco allora che iniziano a pioverci addosso le fatidiche frasi che vanno dal “dobbiamo chiudere questo progetto” al “le proposte commerciali devono essere inviate prima delle ferie”, per passare poi a “inviamo tutti i report, i contratti, le mail” fino ad arrivare a “programmiamo le riunioni di allineamento per assegnare tutti i compiti in modo che al rientro tutti sappiano cosa fare”.
 
In questa frenesia, non si considera un aspetto fondamentale: le persone saranno assenti al massimo 15 giorni lavorativi. Non 60, 180 o 360. E, tra l’altro, avranno – mi sento di dire nel 99% dei casi – il proprio smartphone da cui, in caso di necessità, leggere le mail o rispondere alle telefonate. 
 
E allora, da cosa dipende questo panico pre-vacanze? L’idea che mi sono fatta è che tutto sia legato proprio a questo eccesso di connessione. Sappiamo che, potenzialmente, potremmo non staccare mai e quindi tendiamo a ridurre al minimo le possibilità di essere disturbarti quando siamo in ferie, cercando disperatamente di chiudere tutto prima di uscire dall’ufficio. 
 
Da qualche anno le aziende tendono a far smaltire le ferie ai propri dipendenti in modo più ragionato, in modo che ad agosto – tolta giusto la settimana del 15, durante la quale anche trovare un bar aperto in città è quasi un’impresa impossibile – il lavoro proceda tranquillamente, come in qualunque altro momento dell’anno. 
 
Per la prima volta da quando gestisco un’azienda ed un team di persone, sto pensando di mettere un messaggio di “out of office” nel quale comunicare – nel caso qualcuno non l’avesse notato – che 10 giorni lavorativi passano in fretta e, salvo casi eccezionali, non succederà nulla di irreparabile. E se anche ci fosse un’urgenza, tutto si può risolvere con una telefonata. 
 
In questi giorni sto chiedendo ai miei contatti quando rientreranno dalle vacanze. Molti di loro saranno operativi alle loro postazioni prima della fine del mese. Due o tre settimane di ferie che sembrano, ai più, davvero troppo poche. 

Quindi, il mondo non finisce? Direi di no, anzi ricomincia come prima. 
Probabilmente con l’ansia da rientro. 

Head hunter, una professione che cambia con le tecnologie

Avremo ancora bisogno degli Head hunters? La risposta a questa domanda è sicuramente affermativa. Tuttavia c’è un “però” che non possiamo ignorare: l’uso sempre più frequente della tecnologia e degli algoritmi per l’estrazione e l’elaborazione dei dati. Se è innegabile, infatti, che il mondo delle risorse umane sia fatto quasi completamente di relazioni personali, è altrettanto vero che il comparto dell’HR TECH sta crescendo sempre di più: 2,4 miliardi di dollari di investimenti in questo ambito nel 2015 e 2,39 miliardi stimati per il 2016. E probabilmente questa cifra è destinata a crescere.

La gestione e l’elaborazione dei dati – non solo in ambito HR – soprattutto quando i numeri sono elevati (pensiamo a qualsiasi database) sono oggetto, da tempo ormai, di processi di automatizzazione. I CRM permettono di effettuare estrazioni con maggiore facilità e velocità. Ma la semplice estrazione non può bastare. I dati, infatti, devono essere interpretati correttamente. E quando si parla di risorse umane, questa interpretazione deve essere molto accurata e una macchina non può sostituire l’uomo.

Per capire se le informazioni inserite nei cv sono vere – giusto per fare un esempio concreto – non c’è altra strada che uno scambio tra candidato e selezionatore. Uno scambio che può certamente avvenire via Skype, via telefono o attraverso i molteplici strumenti che la tecnologia mette a disposizione, ma che non può essere completamente eliminato dal processo di selezione. L’utilizzo di particolari strumenti, dunque, deve essere visto come un modo per snellire e rendere efficienti i processi di selezione, non per sostituire completamente l’uomo.

Un esempio concreto: ci sono alcuni algoritmi che, attraverso la ricerca semantica, permettono di razionalizzare i database di CV ed estrarre le informazioni necessarie da ogni candidato in modo automatico, anche quando non compaiono le parole chiave “classiche” (ognuno può descrivere in modo diverso le proprie competenze). Oppure attraverso un altro algoritmo è possibile, ad esempio, estrarre le soft skills dei candidati (che solitamente sono nella parte finale del cv) in modo che il selezionatore, interrogando il database, sia in grado di creare team senza conflitti per le incompatibilità caratteriali dei membri. Un altro grande problema è, inoltre, trovare i candidati che siano disposti a lavorare in una certa città. Attraverso la geolocalizzazione, dunque, è possibile avere solo i cv dei candidati interessati a quell’area.

In EasyHunters, facciamo proprio questo: sfruttiamo la tecnologia per rendere l’iter di selezione efficiente. Il normale processo ha sempre costretto i candidati a spostarsi anche per il primo colloquio conoscitivo con evidenti – e inutili – sprechi, di denaro e di tempo. Grazie agli strumenti digitali, ora, è possibile eliminare queste distanze. Ma fare un colloquio al telefono, via Skype o Facetime, non significa che sia meno approfondito o di minore qualità. I recruiter di EasyHunters incontrano i candidati online – esattamente come accade, milioni di volte, quando si fanno dei meeting con i colleghi dall’altra parte del mondo – ma il colloquio è esattamente identico a quello che farebbero se l’incontro avvenisse nei nostri uffici.

Io credo, quindi, che la tecnologia debba essere utilizzata come strumento per gli HR e non percepita come una minaccia. Il talento sarà sempre valutato da una persona. Quello che cambierà sarà semplicemente il “luogo” del colloquio.

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Colloquio di lavoro, gli errori inconsapevoli che chi fa selezione può commettere

Può capitare, durante un colloquio, che il selezionatore commetta alcuni errori che vengono definiti inconsapevoli. Ci sentiamo vicini alla persona che ha frequentato il nostro stesso master o la nostra stessa università. Entriamo in sintonia, quasi subito, con chi pratica il nostro stesso sport o tifa per la nostra stessa squadra. 

Perché? La risposta è semplice, quasi banale: tendiamo ad avvicinarci a ciò che ci rassomiglia e in ciò che ci riconosciamo. Lo sport – il calcio in modo ancora più marcato – è un elemento di fortissima aggregazione e di discussione comune. Ma anche condividere la passione per un genere letterario o per un certo attore è un elemento importante di vicinanza.
E’ scontato – ma è bene ripeterlo – che durante un colloquio di lavoro vengono valutate, in primis, le competenze tecniche. Nessun candidato è mai stato scartato, ovviamente, per la fede calcistica o perché appassionato dei film di Fantozzi o ancora per aver indossato una giacca ritenuta brutta. Ma non posso negare, dopo oltre 20 anni di selezione, che il contorno possa influenzare.
E allora, come risolvere questo problema? Vi riporto un consiglio preziosissimo che mi è stato dato da una selezionatrice molto competente e che, a mia volta, ho passato ai ragazzi che lavorano con me in EasyHunters: annotare tutte le sensazioni, positive e negative, avute durante il colloquio. E solo dopo, valutare che impatto queste annotazioni hanno avuto in modo da eliminare totalmente gli errori inconsapevoli che in nessun modo e in nessun caso devono influenzare il processo di selezione.
In EasyHunters puntiamo moltissimo sulla formazione dei consulenti, affinché gli errori inconsapevoli siano prossimi allo zero.

Quanto conta la presenza online per trovare lavoro? Tre consigli per una corretta gestione

Avere una buona presenza online oggi è determinante anche nel lavoro. Sempre più spesso, infatti, i responsabili della selezione affiancano, a un attento esame del curriculum, anche una verifica di ciò che trapela dai profili virtuali e sui nuovi canali per trovare lavoro. Oggi, infatti, far carriera e trovare nuove opportunità di lavoro significa anche essere online e curare nei minimi dettagli tutti i profili social. Non dobbiamo però limitarci solo a LinkedIn, il social per eccellenza per il business. Sono molto importanti anche Facebook e Twitter.
E’ fondamentale, quindi, che non ci siano informazioni in contrasto con quanto riportato nel curriculum, ma soprattutto che non ci siano situazioni spiacevoli: una foto che inciti all’odio o alla discriminazione, ad esempio ma anche frasi o citazioni aggressive…

Voglio darvi tre semplici consigli per una corretta gestione e promozione della nostra immagine professionale online:

  • Attenzione alle foto pubblicate, in particolare quelle private che ci ritraggono in momenti di relax. In questo caso bisogna evitare di lasciare il proprio profilo social completamente aperto anche a chi non fa parte della nostra lista di amici e per il mondo lavorativo pubblicare foto professionali
  • Avere contenuti coerenti: se all’interno del nostro curriculum indichiamo una serie di informazioni, come banalmente possono essere passioni o hobby, è bene che in rete – e quindi su facebook, su twitter – compaiano le stesse informazioni
  • Per ultimo è importante connettersi con altri professionisti, ma non bisogna diventare degli stalker. Cerchiamo di mandare richieste mirate, ma non ossessive!
Come gestire al meglio i profili:

Linkedln:

  • Evidenziare le esperienze più importanti e, se possibile, raccogliere referenze per il proprio lavoro che possano sottolineare i risultati raggiunti e le competenze.
  • Aggiornare il proprio profilo costantemente e creare contenuti interessanti. Non meno importante, partecipare a discussioni all’interno dei gruppi.
  • Connettersi con altri professionisti: aiuta a mostrare la propria esperienza e le proprie passioni.

Facebook: 

 
  • Attenzione alle foto pubblicate
  • Aggiungere contatti lavorativi, solo se si vuole usare Facebook come un network professionale. In questo caso, ovviamente, occorre prestare la massima attenzione ai contenuti che vengono pubblicati.
  • Attenzione alla privacy: meglio evitare di lasciare il profilo completamente aperto anche a chi non fa parte della nostra lista di amici.
  • Contenuti: meglio privilegiare la qualità, piuttosto che la quantità.
  • Seguire aziende e partecipare a gruppi che riguardano il proprio ambito professionale. Questo può essere un modo per raccogliere informazioni (e non presentarsi impreparati a un eventuale colloquio) e farsi notare dagli head hunters.

Sai rispondere alla domanda “come affronti le situazioni stressanti”?

Sostenere un colloquio non è affatto facile, è una situazione stressante e complicata. Ed è per questo che è fondamentale arrivare preparati, anche sulle domande apparentemente più innocue e di poco conto.

Qualsiasi colloquio di lavoro prevede una serie di domande standard, magari declinate in modi differenti, che però non devono essere assolutamente sottovalutate. Rappresentano, in altre parole, l’occasione per dare risposte diverse, che possano farci emergere e distinguere dagli altri candidati. Una delle classiche domande di questo tipo è legata alla capacità di gestione di situazioni stressanti: rispondere, ad esempio, che non ci facciamo mai sopraffare dallo stress può non essere la soluzione migliore.

Ecco tre risposte corrette – ma che potrebbero essere interpretate in maniera negativa – e tre consigli per rispondere al meglio alla domanda “Come affronti le situazioni stressanti?”.

Non mi abbatto e lavoro duramente. Una risposta di questo genere, se mal interpretata, potrebbe non dipingere il candidato come un lavoratore modello, anzi. Per prima cosa mette in luce un aspetto che in fase di valutazione può essere considerato negativo: la scarsa attitudine a lavorare in team e a condividere problemi o preoccupazioni con i propri colleghi e il proprio capo e che, ovviamente, può portare a commettere errori.

È molto meglio, invece, sottolineare quanto siamo in grado di rimanere motivati anche durante le situazioni stressanti e/o difficili, senza perdere di vista gli obiettivi ed, eventualmente, coinvolgere i colleghi o il proprio capo.

Non vado mai sotto pressione. Questa risposta può non significare, a differenza di quanto si possa pensare, che si ha il pieno controllo delle situazioni. Un selezionatore di fronte a questa risposta sente un campanello d’allarme: il candidato ha poca consapevolezza di sé e dei suoi limiti. E nessuno vorrebbe assumere una persona che non sia in grado di capire fino a che punto è in grado di arrivare o, peggio, che non riesca a rendersi conto di situazioni problematiche.

Molto più saggio rispondere che, prima di prendere qualsiasi decisione o iniziare qualunque attività, ci si assicuri di aver riacquistato la calma e la serenità mentale.

Tendo a delegare. Un buon manager deve saper delegare. Ma può capitare che il selezionatore pensi di non avere di fronte il candidato ideale. Nessuno vorrebbe lavorare per un manager che non è in grado di affrontare i problemi e non sa gestire il proprio carico di lavoro e che, ancora peggio, deleghi i compiti che spettano a lui ai propri sottoposti”.

Affermare, al contrario, che la capacità di gestire lo stress di un manager si rifletta – inevitabilmente – su tutto il team mette sotto una luce diversa il candidato. Anche comunicare apertamente che si sta vivendo una situazione stressante e/o chiedere un aiuto per risolvere il problema non viene considerata una risposta negativa.

 

Non mentite durante il colloquio, i selezionatori lo scoprono all’istante!

Durante un qualsiasi colloquio di lavoro, al candidato vengono posti diversi tipi di domande. Alcune di esse sono legate al curriculum, altre alle esperienze lavorative o accademiche, altre ancora alle aspettative di crescita professionale o economica, alla conoscenza delle lingue straniere e agli interessi personali.

È fondamentale essere il più trasparenti e sinceri possibile, anche perché per i selezionatori è abbastanza semplice scoprire, attraverso alcune domande di verifica, bugie o incongruenze.

E’ possibile che un candidato menta durante il colloquio, ma è una prassi assolutamente sconsigliata, soprattutto quando si affrontano le selezioni con gli intermediari. Quando ci si accorge che il candidato non è sincero, la valutazione peggiora drasticamente: se al candidato mancano alcune competenze, forse, è possibile chiudere un occhio, ma chi vorrebbe una persona disonesta nella sua azienda? Nessuno!

Ma quali sono le bugie più frequenti?

  1. Perché hai lasciato il precedente lavoro? È una delle domande più frequenti nei colloqui di selezione. Se è finito il contratto o si è stati licenziati, dire che si è scelto di lasciare la propria azienda non è la soluzione migliore. Dobbiamo ricordare che essere licenziati o non confermati/trasformati non ci rende necessariamente pessimi candidati. Un buon selezionatore, tra l’altro, sarà in grado di dare consigli su come comunicare questa informazione e dare comunque una buona immagine di sé e del proprio percorso professionale, indipendentemente da come è terminato il rapporto precedente.
  1. Ti interessa il ruolo di…? Può capitare che ad un candidato venga proposto un ruolo che, seppur in linea con le sue esperienze, non combaci perfettamente con le sue aspirazioni o con quanto vorrebbe fare. Ammettere che la posizione offerta non è quella dei propri sogni, spiegare il motivo e raccontare con chiarezza quali sono le proprie aspirazioni non è affatto una mancanza di rispetto, anzi. Meglio dirlo subito che in una fase avanzata.
  1. Quanto conosci il linguaggio o il programma…quanto conosci la lingua inglese? Mentire sulle proprie capacità ed esperienze non è mai saggio. Capita spesso che al candidato venga chiesto di fare una prova pratica e a quel punto si viene smascherati nel giro di 30 secondi. Meglio, quindi, non perdere tempo cercando di convincere il selezionatore che si sa usare in modo professionale un determinato software o si conosce perfettamente l’inglese. Così facendo, si prolungherà solo il periodo di ricerca del lavoro giusto: è inutile cercare di trasformare se stessi nel candidato ideale, molto più importante trovare il lavoro ideale per se stessi!
  1. Quanto guadagnavi e quali benefit avevi? Non c’è nulla di sbagliato nel voler cambiare lavoro anche per poter aumentare la propria retribuzione o per avere maggiori benefit. È invece sbagliato – e anche controproducente – mentire su stipendio o altri benefit perché, in molti casi, al candidato potrebbe essere chiesta una prova che le informazioni fornite siano veritiere: ad esempio, l’ultima busta paga, Il Cud dell’anno precedente o la lettera di assunzione e, anche in questi casi, la verità emergerà all’istante.

 

Da manager a consulente: una scelta hard

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Da manager a consulente: una scelta importante. Di Francesca Contardi.

Quando a fine gennaio ho dovuto resettare la mia vita professionale, non avrei scommesso un euro sul mio passaggio a independent player. Ho lavorato come dipendente per quasi 20 anni e mi risultava un po’ difficile pensare di agire, da un giorno all’altro, da sola.

Mi è capitato – come credo capiti a tutti – di pormi la domanda “e se cambiassi la mia vita professionale e non fossi più una dipendente?”. Ma siamo sinceri, finché non ci sbatti il muso contro non ti rendi conto di cosa voglia dire davvero trovarsi – appunto – da sola. Professionalmente parlando, chiaramente.
Ho sempre fatto il commerciale, ma ho sempre avuto famosissimi brand alle spalle. E vendere con la consapevolezza di avere in mano un prodotto o un servizio noto e universalmente riconosciuto non è esattamente come vendere se stessi.
Viviamo in un’era in cui alla domanda “cosa fai?” rispondiamo con il titolo e ruolo che ricopriamo. Come se le nostre capacità si possano riassumere in un titolo. E quello che sappiamo fare dove finisce?
Ecco, io mi sono svegliata una mattina e d’un tratto non avevo più un titolo altisonante sul biglietto da visita. Avevo però una tonnellata di competenze acquisite in anni di studio e di lavoro sul campo da comunicare all’esterno. E dovevo presentarmi al mondo in un momento in cui anche io non sapevo cosa ero esattamente.
Devo ringraziare un conoscente – che oggi è mio cliente – che a febbraio mi ha chiesto di aiutarlo nel miglioramento della sua società. Voleva, in altre parole, che gli facessi da consulente.
“Consulente” è una parola fantastica che contiene dentro il mondo. Fare il consulente vuol dire tutto e vuol dire niente. Devo ammettere che è un termine che mi ha fatto sempre un sacco di paura; ritrovarmi da un giorno all’altro a fare il consulente è stato un trauma. Consulente di chi? Di cosa?
Lavorare con questo mio cliente mi ha aiutata a capire che le mie competenze sono nell’organizzazione strategica, nell’organizzazione, selezione e gestione delle risorse umane e nell’evoluzione della struttura. Ma soprattutto mi ha aiutata a capire che per portare nelle aziende questo mio sapere, non è necessario mostrare un biglietto da visita che porta il logo di una famosa società.
Da febbraio, sono arrivati altri clienti. E con il tempo, la parola “consulente” ha iniziato a farmi sempre meno paura. È una sfida immensa: metto il naso in un sacco di cose (alcune molto divertenti, devo ammetterlo), entro in contatto con business differenti, conosco un sacco di persone e mi confronto con numerose culture aziendali.
È, però, anche un lavoro difficile e molto impegnativo. Richiede uno sforzo mentale non indifferente perché ogni volta che entro in azienda devo essere al 100% e focalizzata su quella società. Non posso andare per inerzia. Essere consulente è davvero molto impegnativo. Occorre molto tempo per consolidare le relazioni esistenti e anche per crearne altre che possano portare nuovo business. Il grande vantaggio, però, è che sono il capo di me stessa. Mi auto-regolo e mi auto-gestisco.

I 5 segreti delle persone resilienti

Un articolo  recentemente apparso su Inc. ha presentato i segreti fondamentali ai quali le persone veramente resilienti si attaccano nei momenti del bisogno.

Secondo Geoffrey James, celebre giornalista, niente è piu importante nel mondo del lavoro della capacità di resilienza. La resilienza è la capacità mentale di affrontare le diversità. Permette di perseverare e di vincere là dove gli altri avrebbero già mollato.

Non si nasce resilienti, è una capacità  che si sviluppa nel corso della vita, grazie alla nostra capacità di discernere e al nostro operare nel mondo. Geoffrey James racconta che ha intervistato centinaia di dirigenti, quadri e imprenditori,che hanno avuto successo.

Ha chiesto a ciascuno di loro quale era il motore che ha permesso di restare focalizzati anche nei momenti più difficili. E  hanno dimostrato di avere molte idee in comune. 

Io ho individuato i primi 5 elementi fondamentali per loro:

1- « Gestisco le miei emozioni, per evitare che loro gestiscano me. »

Le persone resilienti sanno gestire le loro emozioni. Quando percepiscono una emozione forte in arrivo, fanno in modo di distaccarsi prima di iniziare ad agire. Scelgono sia di approfondire questa emozione al fine di usarla per uno scopo preciso, sia di lasciarle fare il suo corso naturale.

2- « Le mie azioni pesano più delle parole»

Le persone resilienti fanno sempre quello che dicono. mantengono le promesse e realizzano gli impegni presi, qualunque sia la difficoltà che si presenta. 

3- «  Io preparo il mio futuro. » 

Le persone resilienti sono costantemente alla ricerca di miglioramento delle loro competenze. sono sempre in formazione per poter affrontare le sfide di tutti i giorni. La conseguenza diretta è che raramente affrontano situazioni che le sorprendono e si adattano rapidamente ai progetti complessi.

4- « Io imparo più dai miei fallimenti che dai miei successi. »

Le persone resilienti non temono il fallimento. secondo loro, il fallimento permette di capire cosa funziona e cosa no. E quindi di poter andare avanti. 

5- « Sono coraggioso. »

Le persone resilienti sono coraggiose. Considerano che niente è sicuro al mondo: non il lavoro, non l’informazione e certamente non il futuro. Invece di inseguire una illusione di sicurezza futura , preferiscono coltivare il coraggio nella loro vita professionale, e nonostante ciò i rischi ci sono sempre.

Le persone resilienti non pensano mai che le loro energie e la loro attenzione siano una risorsa limitata. Sanno che un approccio mentale strutturato e la gestione delle loro emozioni gli permette di superare i problemi quotidiani..

Source : Inc, articolo di Geoffrey James .

4 cose che Pokemon Go può insegnarci sui recruiting

Se nelle ultime 2 settimane avete navigato su internet avete probabilmente sentito parlare di  Pokémon Go.  E’ un gioco che crea dipendenza e che si basa su un meccanismo che ha raggiunto la sua massima popolarità verso la fine degli anni ’90 inizio 2000. E che ora, proprio grazie a Pokémon Go, è tornato alla ribalta in modo prorompente. La realtà interattiva del gioco spinge le persone fuori casa alla ricerca di personaggi immaginari nella nostra vita quotidiana. E’ pura genialità.

Da un giorno all’altro è diventato un fenomeno collettivo, ma quello che affascina di più è il fatto che le persone ne siano diventate dipendenti in pochissimo tempo. E quello che trovo ancor più interessante sono le similitudini tra la app che sta coinvolgendo il mondo e il recruiting.

Recruiting?

Si, recruiting. Ecco alcune cose che Pokémon Go può insegnarci sul modo di assumere:

  1. Le mode arrivano e passano: seguire l’ultima moda in fatto di selezione non è detto che sia la scelta vincente per voi e la vostra azienda. Insieme a metodi poco concreti di assunzione, spesso, arrivano decisioni di assunzione sbagliate.

I cambiamenti possono essere interessanti, ma utilizzare valide, solide e  comprovate tecniche di selezione vi permetterà di non dovervi poi preoccupare delle conseguenze.Trovare il candidato ideale per la vostra azienda deve essere il vostro obiettivo primario. Come ogni altra moda, questo gioco passerà.

  1. Promuovere è importante: non sarebbe una moda se le persone non ne avessero fatto un caso. Non avrei scaricato l’app e iniziato a giocare se non avessi visto quanto gli altri si stessero divertendo. La stessa cosa vale per la vostra azienda: se non siete voi i primi promotori della vostra opportunità di lavoro, perché dovrebbero sceglierla gli altri? I candidati fanno molta attenzione a come viene descritta la società o il business. E sono molto attenti anche ai dipendenti. Perderete delle buone candidature se non diventate voi stessi promotori.
  2. A volte bisogna uscire per trovare quello che cercate: non puoi afferrare un Pikachu senza lasciare il tuo appartamento. Tradotto: devi uscire di casa per incontrare delle persone reali. Ci sono potenziali candidati che non potete raggiungere solo tramite il vostro PC. Qualche volta dovete diventare più creativi e generare network con gli altri per trovare i candidati giusti. Non è detto che riescano a vedervi all’interno dei migliaia di annunci postati ogni giorno. Sopratutto se siete una piccola o media azienda. Ci sono tante aziende che assumono nel mercato globale, quindi dovete trovare un modo per emergere e farvi trovare.
  3. Trovare la persona giusta può richiedere tempo: non accelerate il processo perché siete impazienti. Vi racconto una situazione classica: il lavoro sta aumentando e le pile di cose da fare crescono. E voi dovete ancora assumere qualcuno. Nessuna posizione è cosi importante da farvi accelerare il processo di ricerca, selezione e assunzione. All’interno del sistema, qualche giorno o settimana in più di ricerca non vi costeranno mai quanto l’uscita di una persona selezionata male. Dire alla persona sbagliata “voglio assumerti” può costarvi non poco e per tanto tempo. La pazienza è una virtu della selezione come nei Pokémon.

La prossima volta che andrete a caccia di uno Squirtle o camminerete in un Pokéstop, potreste trovarvi in un’area nella quale incontrare un prossimo collaboratore.

Oppure passare al livello successivo, o meglio ancora vincere.

Una versione originale di questo articolo é apparsa su Jen Teague’s website.