OGNI UFFICIO HA IL SUO OPPORTUNISTA

🚫 Ogni ufficio🏫 ha il suo “opportunista” : abilissimo a prendersi i meriti altrui ma non le proprie responsabilità.
 
E se si ha un pò di esperienza lo si riconosce subito.
In fase di selezione io di solito chiedo di raccontarmi casi di successo o di fallimento.
Tutti ne abbiamo 1️⃣ , a meno di non esserci sempre nascosti o aver fatto i “paraculi” come dice Enrico Pedretti. Ne parlo nel articolo di Anna Zinola sul Trovalavoro di Oggi in edicola con il Corriere della Sera.
 
E voi ne avete mai trovati o affrontati nel vostro percorso e se si , come ⁉️
 
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Corriere opportunista

Referendum per dichiarare disciplina olimpica il km lanciato in aeroporto

Ebbene sì, ho deciso di lanciare e sostenere un referendum per trasformare quell’attività che coinvolge migliaia di lavoratori ogni settimana.
Atleti di altissimo livello che spesso, per lavoro, sono costretti a fare lo stesso tragitto diretti verso mete straniere.
Si riconoscono subito: abito scuro perché deve reggere almeno 14 ore, tacco basso – massimo 5 cm – per le donne e sguardo cattivo che si guarda intorno con fare famelico. E sono quelli che si siedono sempre allo stesso posto del treno, all’andata e al ritorno. Sono sempre avanti e conoscono i tempi a memoria: sanno quando scendere e conoscono le stazioni intermedie solo dal rumore dell’ apertura porte.

Sono quelli con la testa bassa sul telefono, musica nelle orecchie e dita veloci nel tentativo di smaltire il lavoro prima di partire. Sono quelli che al rientro in Italia si riconoscono perché in aereo sono nelle prime file, con bagagliaio a mano e leggero. Sono quelli che non si fanno intenerire dalle vecchiette, veri caterpillar mascherati da simpatiche nonnine, che pur di passare per prime ti menano colpi bassi. Sono i primi davanti alla porta del bus che secondo accurati calcoli sarà esattamente di fronte alla porta degli arrivi. Perché secondo la radice quadrata di 123456789 l’autobus si fermerà esattamente li.

Quelli come me che vanno in paesi extra UE hanno anche la sorpresa del controllo a sorpresa. Quello meglio conosciuto come controllo carogna, con due soli metaldetector per 200 passeggeri, che se passi per ultimo vedi la luce quando ormai Malpensa chiude i battenti, quando ormai è rimasto solo un inserviente che con fare sconsolato ti guarda come per dire “ancora qui stai?” 
Sono dei triatleti, davvero:
  • Presa del taxi o della metro all’ultimo minuto utile, per dormire 10 minuti in più;
  • Salita sul treno nei 30 secondi prima della chiusura delle porte;
  • Salita o discesa dall’aereo nel minimo accettabile senza mandare all’ospedale nessun compagno di viaggio, senza rompere la valigia o le scarpe e riuscendo ad arrivare ai controlli con un sorriso e un buongiorno.
Sono quelli che con estrema soddisfazione dicono che il  tempo di commuting casa-ufficio è di 4 ore 58 minuti e 37 secondi. E sono migliorati di 10 minuti!!!

Arrivano i Millennials: e il capo deve trasformarsi in formatore

I Millennials e le altre generazioni che si stanno affacciando ora sul mercato del lavoro hanno imposto un cambio significativo al ruolo del capo. Se in passato la percezione del capo era data dall’autorità e dal ruolo che ricopriva, con l’avvento dei Millennials questo concetto è stato messo completamente in discussione. Direi quasi sradicato completamente. Il rispetto dell’autorità, per questi nuovi lavoratori, passa prima di tutto dal rispetto umano e dalla stima professionale. E in particolare quest’ultima è fortemente legata ad un altro concetto che i Millennials reputano fondamentale: la capacità di formare e far crescere le proprie risorse attraverso percorsi formativi ben definiti, programmati e condivisi. Una condizione indispensabile per entrare in azienda, ma soprattutto per restarci. Nella classifica dei valori ricercati dai Millennials vengono citati sempre, ai primi posti, la possibilità di avere una visione di medio periodo e il fabbisogno formativo.

Cosa è successo, quindi, nelle aziende? Semplice, una corsa folle verso le creazione di corsi – e percorsi – di formazione: dai più banali (la sicurezza, il codice etico) a quelli più legati alle posizioni ricoperte (digital, social media, comunicazione, marketing, sales…). E poi milioni e milioni di ore di corsi di lingua inglese. Un numero talmente alto di lezioni che, a questo punto, dovremmo essere un paese bilingue. Tramite fondi professionali, tramite formatori esterni o grazie a manager già presenti in azienda, quasi tutti si sono attrezzati per fornire alle nuove leve quanto possibile in termini di competenze ed esperienze. Peccato che, in tutta questa ansia da formazione, molti si siano poi dimenticati di formare i capi a gestire queste nuove generazioni. Un problema non banale visto che, una volta usciti dall’aula, la formazione dovrebbe proseguire tutti i giorni negli uffici. E il formatore, in teoria, dovrebbe essere il manager o la figura «più senior» del team.

Eppure – e questo è un aspetto che riscontro davvero spessissimo quando faccio consulenza e coaching nelle aziende – si ritiene che più si invecchia professionalmente, meno ci sia bisogno di training. Un errore enorme, visto e considerato che chi gestisce team di persone necessiterebbe di formazione continua su numerosissimi aspetti: dall’uso della tecnologia per facilitare il lavoro all’affrontare i conflitti, dal motivare le persone agli aspetti più pratici legati al business. Si dice che ogni capo che non insegna è destinato ad essere sostituito perché non è in grado di soddisfare le esigenze di due suoi collaboratori, indipendentemente da quanto in alto si trovino nella gerarchia aziendale.

Pensiamo, giusto per citare un esempio molto attuale, al tema della cyber security: quanti Ceo sono realmente preparati su questo argomento? Quanti Ceo hanno messo piede in un’aula per capirne di più? Pochi, almeno finché il problema non diventa reale ed impellente. E quando il problema sarà reale ed impellente, forse i danni saranno già di enorme portata. Credo che tutti, a qualunque livello si trovino, debbano dedicare tempo all’apprendimento. Ma sono ancora più convinta che. con l’aumentare delle responsabilità in azienda, il ruolo della formazione diventi sempre più cruciale. Un manager impreparato non può guidare con successo il proprio team. E un team che sa di non poter imparare dal proprio manager non può lavorare bene. Con un risultato molto semplice: una sconfitta, da qualunque parte la si guardi.

 

* L’articolo originale è stato pubblicato da www.ilsole24ore.com qui

Il mondo finisce due volte l’anno: l’ansia pre-ferie negli uffici

Di fine del mondo si parla molto spesso e sotto diversi punti di vista: religioso, politico, socio-economico, ambientale. E dal punto di vista lavorativo? Direi quasi mai, eppure ci sono due periodi in cui, pare, ci sia la fine del mondo anche negli uffici: prima di ferragosto e prima di natale.

Lo stiamo vivendo, credo, proprio in questi giorni. Indipendentemente dal ruolo che si ricopre in azienda, c’è una specie di ansia collettiva e diventa indispensabile correre per arrivare alla fine. Ma alla fine di cosa? Quei 15 giorni di ferie non sono, posso giurarlo, un enorme buco nero oltre il quale non c’è nulla. 
 
Sembra, però, che nessuno ci creda. Ecco allora che iniziano a pioverci addosso le fatidiche frasi che vanno dal “dobbiamo chiudere questo progetto” al “le proposte commerciali devono essere inviate prima delle ferie”, per passare poi a “inviamo tutti i report, i contratti, le mail” fino ad arrivare a “programmiamo le riunioni di allineamento per assegnare tutti i compiti in modo che al rientro tutti sappiano cosa fare”.
 
In questa frenesia, non si considera un aspetto fondamentale: le persone saranno assenti al massimo 15 giorni lavorativi. Non 60, 180 o 360. E, tra l’altro, avranno – mi sento di dire nel 99% dei casi – il proprio smartphone da cui, in caso di necessità, leggere le mail o rispondere alle telefonate. 
 
E allora, da cosa dipende questo panico pre-vacanze? L’idea che mi sono fatta è che tutto sia legato proprio a questo eccesso di connessione. Sappiamo che, potenzialmente, potremmo non staccare mai e quindi tendiamo a ridurre al minimo le possibilità di essere disturbarti quando siamo in ferie, cercando disperatamente di chiudere tutto prima di uscire dall’ufficio. 
 
Da qualche anno le aziende tendono a far smaltire le ferie ai propri dipendenti in modo più ragionato, in modo che ad agosto – tolta giusto la settimana del 15, durante la quale anche trovare un bar aperto in città è quasi un’impresa impossibile – il lavoro proceda tranquillamente, come in qualunque altro momento dell’anno. 
 
Per la prima volta da quando gestisco un’azienda ed un team di persone, sto pensando di mettere un messaggio di “out of office” nel quale comunicare – nel caso qualcuno non l’avesse notato – che 10 giorni lavorativi passano in fretta e, salvo casi eccezionali, non succederà nulla di irreparabile. E se anche ci fosse un’urgenza, tutto si può risolvere con una telefonata. 
 
In questi giorni sto chiedendo ai miei contatti quando rientreranno dalle vacanze. Molti di loro saranno operativi alle loro postazioni prima della fine del mese. Due o tre settimane di ferie che sembrano, ai più, davvero troppo poche. 

Quindi, il mondo non finisce? Direi di no, anzi ricomincia come prima. 
Probabilmente con l’ansia da rientro. 

Commuting: come rendere questo tempo produttivo?

Trenta minuti. In alcuni casi anche un’ora, a volte addirittura di più. È questo il tempo che, soprattutto nelle grandi città, impieghiamo per andare in ufficio e tornare a casa. Spesso non consideriamo che questo tempo ha un costo vero e proprio e tendiamo a sacrificarlo, giustamente, per quell’opportunità meglio retribuita, ma lontano da casa. Mi capita spesso di dover prendere il treno per spostarmi e le persone che vedo intorno a me fanno cose molto diverse: qualcuno ascolta musica, pochissimi leggono un quotidiano, alcuni guardano il cellulare o fanno telefonate, molti altri, infine, aspettano semplicemente che il tempo trascorra. Non sono pochi, ovviamente, coloro che approfittano di questo tempo per rispondere alle mail, leggere documenti, approfondire determinati argomenti. Tutte attività per le quali, in una normale giornata lavorativa, sarebbe difficile ritagliare del tempo.

Questo spazio temporale, comunque lo si impieghi, impatta notevolmente sulla giornata lavorativa nostra e di tutte le persone che lavorano con noi. E per capirlo, basta fare un semplice calcolo: un’ora al giorno, per cinque giorni alla settimana, per quattro settimane ogni mese. Come possono, quindi, aziende e manager utilizzare al meglio questo tempo per aiutare i propri dipendenti e/o collaboratori? Alcune ricerche inglesi hanno evidenziato che coloro che, durante il tempo del commuting, riguardano la propria agenda, pianificano le attività da fare e analizzano i problemi da affrontare hanno una marcia in più degli altri colleghi quando arrivano in ufficio. Perché? Semplice, hanno già chiaro il da farsi.

Immaginatevi la classica scena: arrivo in ufficio, avvio del pc, caffè e quattro chiacchiere con i colleghi, ritorno alla propria postazione e analisi delle attività da svolgere nel corso della giornata. Una routine quotidiana di almeno 30 minuti sprecati perché improduttivi. Se si arriva in ufficio avendo già chiaro il programma della giornata e, magari, avendo già risposto ad alcune mail, questo tempo “a vuoto” si riduce sensibilmente. È chiaro, naturalmente, che il tempo destinato al commuting è personale e ogni dipendente può impiegarlo come meglio crede, ma se le aziende iniziassero a dargli un valore?

In un’epoca di smart working – che ha sradicato completamente il vecchio concetto di ufficio e che permette di lavorare da casa, sui mezzi pubblici e addirittura in spiaggia – bisognerebbe iniziare a ragionare su come sfruttare al meglio questo tempo e dare la possibilità ai propri dipendenti di avere una riduzione dell’orario. Un aspetto da non sottovalutare e che, anzi, potrebbe trasformarsi in uno strumento molto utile per le mamme, ad esempio, ma anche per tutti coloro che passano davvero molto tempo in treno, sugli autobus o in metropolitana.

È naturale che tutto questo è possibile solo se si instaura un rapporto manager – dipendente basato su profonda fiducia e responsabilità. Ma è anche vero che se stiamo imparando ad accettare che si possa lavorare da casa per un giorno al mese o un giorno alla settimana, perché non possiamo accettare che si possa essere produttivi anche nel tragitto casa-lavoro? Un discorso a parte deve essere fatto per coloro che si recano in ufficio in auto. In questo caso, il tempo può essere impiegato esclusivamente per le telefonate che, nella maggior parte dei casi, sono di lavoro. E anche questo è un tempo dedicato all’azienda che deve essere in qualche modo riconosciuto.

Io credo che il tema del remote working – inteso però non come lavoro da casa, ma lavoro da “ovunque mi trovo” e quindi anche in viaggio – sia un argomento molto caldo che ogni manager debba necessariamente iniziare a considerare. Da un lato, sempre più persone hanno un numero personale e uno di lavoro che spengono nei week end o la sera per evitare invasioni nei loro spazi e momenti personali. Dall’altro lato, però, le aziende che forniscono smartphone, tablet e pc si aspettano che i propri dipendenti siano sempre raggiungibili. A questo punto, perché non iniziare a pensare non solo ai nuovi spazi di lavoro, ma anche ai nuovi tempi?

In EasyHunters abbiamo iniziato ad analizzare le singole esigenze dei consulenti per capire come ottimizzare e rendere produttivo anche il tempo degli spostamenti. Stiamo cercando di capire come sfruttare questi momenti per pianificare call di allineamento interno, programmare le attività dei vari team o approfondire alcuni argomenti di interesse per il nostro settore.

* L’articolo originale è stato pubblicato da www.ilsole24ore.com qui

Il team non funziona: e se fosse anche un problema di leadership?

Non è un dipendente capace»; «No, non è un buon capo!». Quante volte abbiamo assistito a dialoghi di questo tipo? E il dubbio, in questi casi, è sempre uno solo: chi ha ragione? Da una parte ci possono essere manager che non sono in grado di gestire i propri team e tirare fuori, da loro, il meglio. Dall’altra, però, ci possono anche essere dipendenti che – per un motivo o per un altro – non dimostrano il proprio impegno.

Il compito di ogni buon manager è proprio questo: capire le motivazioni (se ci sono) che portano i dipendenti a non performare come ci si aspetterebbe e metterli nelle condizioni di lavorare al meglio. In base alla mia esperienza, ho capito che le situazioni-tipo che generano questo tipo di conflitti sono quasi sempre le stesse. E quasi tutte hanno una soluzione semplice ed immediata, in grado di riportare la serenità negli uffici.

Quella più banale è legata alla gestione del tempo. Capita spesso che qualcuno non rispetti le scadenze assegnate. In questi casi, l’aspetto fondamentale è capire da cosa dipende questo ritardo. E se tutto fosse legato ad una comunicazione poco efficace? Se dipendesse dal fatto che non arrivano le indicazioni giuste per poter comprendere e svolgere il lavoro? Questo è un punto cruciale: un buon manager deve essere in grado di fornire tutte le informazioni e gli strumenti necessari affinché il team possa portare a termine i compiti assegnati e rispettare le scadenze.

Un altro aspetto che può rivelarsi problematico, invece, è legato alle relazioni all’interno dei team. Ecco perché è fondamentale che ogni manager sia in grado di capire – già in fase di colloquio – gran parte degli aspetti caratteriali ed evitare di assumere un candidato che, molto probabilmente, non sarà in grado di integrarsi nel team. Può succedere, comunque, che qualche conflitto sorga strada facendo. In questo caso, il manager deve assolutamente capire – nel più breve tempo possibile – da dove abbia origine.

Se la persona non riesce a lavorare in modo efficace in gruppo, ad esempio, può non dipendere semplicemente da differenze caratteriali o da incapacità. Può succedere che dia il meglio di sé quando lavora da solo. Un buon manager, dunque, deve comprendere questa situazione e fare in modo che tutti siano in grado di lavorare nelle condizioni per loro più favorevoli. A questo si collega, infine, un altro aspetto che non deve mai essere sottovalutato. Quando le performance di qualcuno non migliorano – o lo fanno più lentamente di quanto ci aspettiamo – non è sempre colpa della scarsa volontà o, peggio ancora, della mancanza di competenze tecniche. Ho imparato, nel corso della mia carriera, che in moltissimi casi di questo tipo c’è un solo problema: l’assenza di feedback e di linee guida.

Quando una persona non riesce a capire cosa sta facendo bene e cosa male, dove può migliorare o dove ha raggiunto il livello che ci si aspetta da lei, non sarà mai in grado di crescere professionalmente. Credo, quindi, che prima di considerare un dipendente poco capace, svogliato o come elemento negativo del team, si debba fare un’analisi molto approfondita della situazione e trovare una soluzione. In fondo, gestire le persone e tirar fuori da loro il meglio è compito del manager.

* L’articolo originale è stato pubblicato da www.ilsole24ore.com qui

Colloquio di lavoro, gli errori inconsapevoli che chi fa selezione può commettere

Può capitare, durante un colloquio, che il selezionatore commetta alcuni errori che vengono definiti inconsapevoli. Ci sentiamo vicini alla persona che ha frequentato il nostro stesso master o la nostra stessa università. Entriamo in sintonia, quasi subito, con chi pratica il nostro stesso sport o tifa per la nostra stessa squadra. 

Perché? La risposta è semplice, quasi banale: tendiamo ad avvicinarci a ciò che ci rassomiglia e in ciò che ci riconosciamo. Lo sport – il calcio in modo ancora più marcato – è un elemento di fortissima aggregazione e di discussione comune. Ma anche condividere la passione per un genere letterario o per un certo attore è un elemento importante di vicinanza.
E’ scontato – ma è bene ripeterlo – che durante un colloquio di lavoro vengono valutate, in primis, le competenze tecniche. Nessun candidato è mai stato scartato, ovviamente, per la fede calcistica o perché appassionato dei film di Fantozzi o ancora per aver indossato una giacca ritenuta brutta. Ma non posso negare, dopo oltre 20 anni di selezione, che il contorno possa influenzare.
E allora, come risolvere questo problema? Vi riporto un consiglio preziosissimo che mi è stato dato da una selezionatrice molto competente e che, a mia volta, ho passato ai ragazzi che lavorano con me in EasyHunters: annotare tutte le sensazioni, positive e negative, avute durante il colloquio. E solo dopo, valutare che impatto queste annotazioni hanno avuto in modo da eliminare totalmente gli errori inconsapevoli che in nessun modo e in nessun caso devono influenzare il processo di selezione.
In EasyHunters puntiamo moltissimo sulla formazione dei consulenti, affinché gli errori inconsapevoli siano prossimi allo zero.

I 5 errori da non commettere quando si cerca lavoro

Cercare lavoro è, lo sappiamo, un vero e proprio lavoro. E proprio per questo è bene agire in modo strategico e pianificato, per evitare di commettere degli errori che, in una situazione di questo tipo, possono rivelarsi fatali.

La ricerca di occupazione è una situazione molto stressante e può mettere a dura prova chiunque. Ci sono, però, alcuni errori che è bene non commettere per evitare di bruciarsi delle opportunità importanti.

  1. Descrivere le proprie esperienze e le proprie competenze usando termini inappropriati: il 90% dei curriculum che un selezionatore riceve, contiene le stesse formule che – proprio perché ormai inflazionate – hanno perso significato. “Capacità di lavorare in team”, oppure “persona motivata”, ma anche “ottime doti relazionali” sono praticamente ovunque. Meglio sostituirli con termini meno di impatto, magari, ma che hanno un significato reale.
  1. Rispondere a qualsiasi annuncio, anche a quelli non in linea con il proprio profilo: è inutile negarlo, candidarsi a qualsiasi ruolo è una inutile perdita di tempo che non porterà ad alcun risultato. Molto meglio focalizzarsi solo su un numero limitato di offerte e, piuttosto, costruire un network di relazioni che possa portare vantaggi al proprio percorso professionale.
  1. Giocarsi la carta della “vittima” durante il colloquio. Cercare di impietosire il selezionatore apparendo disperati non è la scelta giusta, anzi. Soprattutto in quelle situazioni in cui le aziende per cui si è lavorato hanno affrontato situazioni economiche difficili. Di solito la scelta ricade su chi ha saputo reagire e non piangersi addosso.
  1. Fare richieste economiche non in linea con il proprio profilo: non conoscere la propria situazione contrattuale – non solo in termini di salario fisso, ma anche di variabile, benefits o agevolazioni – potrebbe portare a fornire informazioni non complete che magari poi possono rivelarsi una scelta negativa e che, nel lungo periodo, non premia. Si inizierà un nuovo lavoro guadagnando meno e – soprattutto – sarà più difficile ottenere uno stipendio adeguato.
  1. Accettare qualsiasi condizione e/o richiesta e non negoziare il compenso: se vengono fatte richieste che si reputano inaccettabili o comunque inadeguate, è meglio declinare subito per evitare di trovarsi in situazioni spiacevoli dopo. Altrettanto importante, inoltre, negoziare il proprio compenso prima che l’assunzione sia avvenuta. Una volta firmato il contratto, sarà molto difficile tornare a discutere di denaro e chiedere un aumento.